Quando i prof occuparono la scuola

Si racconta con nostalgia e con lacrime di orgoglio e di grandezza dei giorni mitici in cui la nostra scuola venne occupata. Avevamo quindici o diciassette anni? Una più che lecita protesta verso il mondo degli adulti: basta istruzione di serie b, basta palestre fatiscenti e macchinette che non dispensano panini al salame, basta precari neanche laureati che non sanno insegnare e non hanno polso, basta soprusi.

Al posto di matematica e latino ore creative di autogestione: lezioni di chitarra elettrica e yoga, teatro di ricerca e nozioni di politica, inglese concesso solo se legato ai testi della band di riferimento. E naturalmente notti intere asserragliati nelle aule, bivacchi promiscui e calcolati, striscioni, cartelli, da bere e da fumare per tenersi su. Se pensiamo alle occupazioni siamo soliti vedere adolescenti padroni della scuola e niente adulti nel raggio di chilometri.

Ma venne il giorno in cui le cose presero una piega diversa. Erano tempi in cui la scuola aveva perso la sua funzione di insegnamento credibile e di disciplina imposta, si era ammorbidita come i biscotti lasciati troppo a inzuppare nel caffellatte. I prof, da severi detentori del sapere arcigni e inflessibili, erano diventati dei fratelli maggiori, zii consenzienti, cugini innocui a cui chiedere consigli di vita, animatori di un villaggio anestetizzato in cui si ritrovavano alla pari dei loro allievi, vittime consenzienti: il web aveva livellato e azzerato differenze e gerarchie, al resto ci avevano pensato gli stessi prof che vestivano come eterni ragazzi, non invecchiavano mai e cercavano il consenso dei fanciulli dei quali – inconsapevolmente – pretendevano di essere pari.

Una situazione insensata di frustrazione e di stallo che si modificò solo quando un’epidemia misteriosa e letale si diffuse in ogni cantone. Per arginare la psicosi che si era propagata per paura del contagio successe una cosa che non era mai accaduta in precedenza: le autorità decisero di chiudere i posti pubblici e gli spazi di aggregazione, e tra questi rientravano le scuole.

Privi all’improvviso e insperabilmente dell’obbligo formativo, i ragazzi si diedero all’ozio e alla bella vita per due giorni, alla terza mattina senza i loro compagni di giochi preferiti (i prof) e senza il solito scintillante luna park (la scuola) caddero in una progressiva apatia, aumentata dal fatto che adesso gli unici adulti che erano obbligati a sopportare erano i loro genitori.

Per i prof invece si aprì un periodo di inedita beatitudine. Si recavano quotidianamente a scuola ma stavolta erano padroni loro delle aule e degli ambienti. I corridoi risuonavano solo del rimbombo delle loro scarpe, tutte le postazioni dei computer erano libere, l’affanno delle lezioni e la responsabilità avevano assunto la valenza di ricordi. In quella autogestione pacifica e naturale i prof si dedicavano alla lettura, all’aggiornamento, alla conversazione, preparavano con calma tutto ciò che di solito dovevano organizzare al volo, si riappropriavano del silenzio.

Il momento di riflessione servì anche a mettere a fuoco il loro ruolo di insegnanti: avrebbero tutti preso coscienza della situazione ridicola che avevano contribuito a creare e si sarebbero impegnati per tornare a indossare i panni di strenui difensori della cultura e dell’istruzione. Avrebbero trovato una soluzione per l’istituzione scuola, di certo… l’indomani.

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