Chiamiamola licenza poetica, chiamiamola forzatura della lingua. Non è un trastullo estivo né un piacevole rompicapo da ombrellone e granita. La questione è delicata, leggera ma pregnante, e riguarda il pronome che ormai utilizzo da tempo, la parolina magica che è diventata per me iconica, che racchiude in quattro lettere un mondo intero: essi.
Chi mi segue sa che “essi” sono i miei allievi, un universo di adolescenti talmente vario e sfaccettato da una parte e talmente prevedibile e omogeneo dall’altra da poter, per paradosso, essere sintetizzato in un termine che li comprende tutti in un magma generico e informe. Tante facce e tanti nomi ma alla fine un solo corpo: mistero e inquietudine.
“Essi” funziona bene. E’ una sorta di plurale di “It”, e salutiamo Stephen King. E’ un pronome un po’ fuori moda, da testo scritto, formale, che essi per l’appunto non utilizzerebbero mai più, e questo mi diverte. Oggi preferiamo tutti il pronome “loro” e va bene così. Il punto è che, secondo la grammatica, “essi” andrebbe usato come soggetto e “loro”, invece, come complemento. Ma se “loro” adesso è accettato anche come soggetto, chi sono io per non servirmi di “essi” in tutti i casi e le combinazioni che voglio?
E tant’è, lo faccio. Sia chiaro che sono consapevole di compiere un piccolo azzardo quando scrivo espressioni come “Vedo apparire essi” o “Senza di essi” ma ormai questo pronome per me è indeclinabile, inamovibile, inevitabile. E se non lo usassi così com’è chi mi legge sul blog e su Facebook ci resterebbe male. (Anche per strada qualcuno ormai mi chiede direttamente: “Come stanno essi?”)
“Essi” è trasversale, includente, liquido e solido insieme.
“Essi” è già un titolo.
