Forse l’estate è il momento giusto per un libro che s’intitola “Trieste senza bora”. Questa è la stagione in cui il vento soffia di meno o, se lo fa, non è così violento e gelido come in inverno. “Trieste senza bora” è il mio nuovo libro, il dodicesimo, tra raccolte di racconti, romanzi, volumi per ragazzi e traduzioni. Esce per Watson Edizioni di cui inaugura la collana Luci diretta da Francesco Borrasso. E’ un libro a cui tengo, a cui ho lavorato con passione, seguendo un’intuizione che credo funzioni. Parlo della mia città e di come questa non possa fare a meno di interferire nella vita dei personaggi. Affronto tre momenti recenti della fine del Novecento, gioco con alcuni dati storici e biografici, costruisco una storia segmentata in cui dalla narrazione in prima persona passo alla terza e concludo, non senza un certo azzardo, con la seconda.
Per presentare il libro sul mio blog condivido la recensione scritta da Andrea Bricchi sulla rivista Downtobaker, in attesa di ricevere i commenti di chi vorrà leggere il volume.
Andrea Bricchi
“TRIESTE SENZA BORA” DI CORRADO PREMUDA: DICHIARAZIONE D’AMORE, UNA E TRINA, PER LA SUA CITTA’-APPRODO
Dowtobaker, 22 luglio 2021
Corrado Premuda ha all’attivo diverse pubblicazioni per ragazzi, oltre ad avere un’esperienza in campo teatrale e pubblicistico. Il suo essere scrittore di “confine” spiega poi l’insolita caratteristica di aver pubblicato nella vicina Croazia un romanzo che rimane ancora inedito in patria. In Trieste senza bora (Watson Edizioni, pp. 122, euro 15) raccoglie tre racconti accomunati da un unico polo tematico e metaforico, che è quello esplicitato nel titolo, e da un paio di altre caratteristiche fondanti, la presenza di un artista fra i personaggi principali e lo scavo psicologico come modalità narrativa plasmante della storia. Con limpidità espressiva Premuda accompagna il lettore nelle vicende dei suoi personaggi in un felice rimpallo fra la vita vissuta e quella pensata, dosandole con efficacia in un flusso coerente e cadenzato. Ciò che delizia di più sono le notazioni brillanti e talora aforistiche che, senza scadere nel manierismo, ricorrono sotto la sua penna. Come la seguente, al limite della freddura, tratta da Il sesto rigo, racconto incentrato su una musicista: «Fanno più male i gradini da scendere o le scale da continuare a suonare?»
L’effetto di un andamento simile è immersivo. Sono del pari efficaci impressioni poetiche come, a puro titolo di esempio, «Il vento percuote insistente fronde e fiori, colleziona foglie che si diverte subito a sparpagliare intorno», ne La madre segreta. La lingua è piana, trasparente anche nei rarissimi casi di regionalismi di area giuliana, perfettamente congrui con storia e personaggi e in grado di restituire in parte la musica della parlata locale: Che cocolo; Non ne ho alba; scovazze. Ma il dato tecnico che davvero colpisce è il leitmotiv della bora e della sua assenza, che attraversa come una brezza, o piuttosto come una corrente d’aria, le tre narrazioni: un trattamento del tema che affascina ed è sempre fecondo di variazioni e letture diverse, convergenti su alcuni punti essenziali. Quando si rimane orfani del vento, è il momento in cui qualche mutazione è in corso e dilaga l’anomalo; viceversa la bora, con i suoi sconvolgimenti, è una condizione ambientale ideale, ci si sente a casa. La sua assenza ha qualcosa di ambiguo: nel suo carattere irregolare, offre l’occasione di ricollegarsi in una calma effimera con la dimensione del materno, delle proprie origini («La città… quando è senza vento permette agli artisti di ritrovare se stessi»).
I personaggi devono infatti confrontarsi con la figura genitoriale: anzitutto una madre in senso classico, quindi lo spettro di un padre rivisto in un sogno a occhi aperti, infine una madre che si scopre tale ma forse lo è solo in senso lato. Le tre storie ruotano, si diceva, attorno ad artisti: una musicista, un regista teatrale, una pittrice. Hanno a che fare con Trieste in vari modi: è il luogo del ritorno, delle suggestioni creative, dell’infanzia. La «città del vento» è per loro la casa a cui si finisce sempre per tornare. Basta un refolo a rispedirveli. Allo stesso tempo appartengono tutti alla dimensione del viaggio, sono colti in movimento. Il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia è una tappa, la sua posizione geografica conduce i protagonisti a condividerne la vocazione all’essere porta, ponte, porto. Impossibile non averne presente l’«anima multietnica», come infatti fa l’autore ne I reduci.
I tre, che parlano molto a se stessi (il pensiero va inevitabilmente a Svevo, Joyce, Saba: «Questa non è la citta dei monologhi interiori?»), sono alla ricerca di un’identità o una guarigione, che è rinascita, e in quest’attesa si consuma la storia, che sfocia sempre nel ritorno di quel filo di vento che infine fa piazza pulita di «polvere e ossessioni». Proprio Joyce scriveva che esso opera come «uno spirito di salute che porta aria dal cielo». Un’idea in antitesi con il soprannome di città de mati che scherzosamente si attribuisce a Trieste proprio in virtù del martellante e stordente soffiare di quel vento impetuoso sui suoi abitanti. La bora diventa, nella scrittura dell’autore, metafora pervasiva. Tutto vi ritorna, come il figlio alla rassicurante sottana di chi lo ha messo al mondo, quella stessa madre che però è «uno specchio che ti accusa». Può valere come traslato, ad esempio, della voce e dell’espressione: «Ho un filo di voce… Il punto è che adesso mi manca il fiato». Il vento produce vibrazioni, trasporta le parole, è afflato. Senza bora l’artista triestino è afono. La sua immaginazione è un’arpa eolia.
Il trittico di Trieste senza bora – che più che ai tre racconti di Flaubert è forse giocosamente ispirato al carattere uno e trino suggerito dalla stessa parola, Tri-este – è insomma una tenera lettera d’amore a un luogo che è «approdo, rifugio, città-raccoglitore», eppure non sempre è madre affettuosa, ma sa anzi essere burbera. Insieme, la raccolta è un poetico rincorrere quel vento che le è così caratteristico, dalla «scontrosa grazia» per dirla con Saba, e che insieme al mare rende, come scrive Premuda, «grande la piccola città di Trieste».
