Tra i mestieri più intriganti e delicati del mondo editoriale c’è quello del traduttore. Moltissime sono le qualità che si richiedono a questo professionista: cultura, abilità lessicali e sintattiche, potere di immedesimazione, musicalità, capacità di scrittura, misura. Trasportare una storia e i suoi personaggi in un’altra lingua e in un altro mondo richiede un talento speciale e una grande preparazione. Qualche giorno fa ho avuto l’occasione di intervistare Antonietta Pastore, conoscitrice profonda del Giappone e della letteratura nipponica, e con piacere riporto la nostra interessante conversazione pubblicata sul quotidiano Il Piccolo.
Corrado Premuda
ANTONIETTA PASTORE, VOCE ITALIANA DI MURAKAMI: “CON LUI SONO IN SINTONIA”
Il Piccolo, sabato 14 maggio 2022
Se Murakami è tanto amato in Italia il merito è anche suo: Antonietta Pastore, traduttrice e scrittrice, è la voce italiana dell’autore nipponico. Un compito non facile data la lontananza della lingua e della cultura giapponesi dalle nostre. Antonietta Pastore è ospite domenica al Civico Museo d’Arte Orientale alle 11 per la rassegna Il Maggio dei Libri: dialogherà insieme a Massimo Battista, curatore del blog labibliotecachevorrei.it. In libreria in questi giorno con il volume “Racconti del Giappone” (Einaudi, pp. 312, euro 19,50), la traduttrice ci rivela che la decisione di studiare il giapponese viene da un’esigenza personale.
“Ho sposato un giapponese conosciuto a Ginevra. Dopo il viaggio di nozze in Giappone ho cominciato a studiare la lingua e l’ho approfondita quando ci siamo trasferiti a Osaka. Il mio giapponese orale è andato gradualmente migliorando, ma solo molti anni dopo; dopo il divorzio ho studiato ancora e appreso a leggere, e grazie a questa mia nuova capacità mi sono poi messa a tradurre testi letterari”.
Che cosa la affascina di più della letteratura del Giappone?
“La capacità di esprimere le passioni. Di solito i giapponesi non lo fanno, si tengono dentro le emozioni e mostrano una facciata molto composta, imperturbabile. Questo loro atteggiamento, che è una forma di condizionamento culturale collettivo, mi ha tratta in inganno i primi anni del mio soggiorno in Giappone, e ha rinforzato un mio pregiudizio: pensavo infatti che la maggior parte dei giapponesi fossero freddi, anaffettivi. Se ho capito che le cose non stanno così è stato grazie alla letteratura, grazie ai personaggi creati da Soseki, Kawabata e tanti altri scrittori. Perché è nella letteratura e nell’arte che i giapponesi hanno sempre dato voce, nei secoli, a quel mondo interiore che la società non consente loro di esternare liberamente. Questo è valido anche per gli autori e gli artisti contemporanei, a cominciare da Murakami”.
Con quale criterio ha selezionato i testi pubblicati nel libro “Racconti del Giappone”?
“Mi sono resa conto che la scelta temporale si imponeva, perché sono perlopiù impressioni di scrittori e scrittrici sul paese e la sua gente, la fiction manca quasi del tutto. Quindi ho pensato che fosse molto interessante, per i lettori, vedere come la percezione del popolo giapponese da parte degli autori occidentali andasse cambiando nel tempo. Dai primi incontri all’inizio del ventesimo secolo fino ai giorni nostri”.
Nel tradurre Murakami quanto interviene sul testo per renderne la voce?
“Nella lingua giapponese ci sono dei concetti e delle forme di costruzione delle frasi molto diversi dall’italiano. A volte è necessario intervenire con decisione: chi traduce deve far comprendere ai lettori non solo il senso letterale del testo, ma anche i sentimenti dei personaggi. I giapponesi sono molto avari di espressioni emotive e quindi è necessario saper cogliere questi sentimenti, in un testo letterario, anche quando sono solo accennati, e nella traduzione italiana metterli in evidenza, altrimenti il lettore non capirà. Succede così che per rendere appieno il senso profondo di un testo, io debba allontanarmene. Una traduzione letterale tradirebbe il significato, o la valenza, dell’originale. In ogni caso ho con Murakami, che traduco da una ventina d’anni, una particolare sintonia, quindi immergermi nelle sue atmosfere mi viene spontaneo”.
Si confronta con Murakami mentre lo traduce?
“Tecnicamente la scrittura di Murakami non è complessa, raramente un periodo ha più di due dipendenti, quindi, dal punto di vista del linguaggio, tradurlo non è difficile. Come ho detto, la difficoltà della traduzione dal giapponese si situa altrove, e a volte mi è successo di chiedere via mail a Murakami, in realtà alla sua assistente, di chiarirmi il significato che si nasconde dietro le parole. Di solito la risposta, seppure molto gentile, è stata piuttosto vaga, dal che ho dedotto che Murakami si affida fiduciosamente ai suoi traduttori. Allora ho finito col rinunciare a confrontarmi con lui, e quando ho dei dubbi chiedo consigli a un’amica giapponese che è una magnifica lettrice e ama molto le sue opere”.
Gesualdo Bufalino diceva che il traduttore è l’unico autentico lettore di un testo: “Il critico è solamente il corteggiatore volante, l’autore è il padre e marito, mentre il traduttore è l’amante”. È d’accordo?
“Sì, sono d’accordo. Tradurre un libro significa impregnarsi dello spirito dell’autore e vivere per un certo periodo nell’universo che crea. Chi traduce è un corteggiatore che alla fine ce la fa. Può succedere che il traduttore tradisca, è vero… ma d’altronde a un amante si può chiedere fedeltà totale come si farebbe a un marito?”
La scrittrice e traduttrice Atsuko Suga ha dedicato a Trieste un libro, “Trieste no sakamichi” (Le strade in salita di Trieste), molto famoso in Giappone.
“Conosco Suga, è stata l’insegnante del mio collega e amico Giorgio Amitrano che me ne ha parlato molto, e con grande affetto. Ho letto alcune traduzioni italiane di Suga di Tanizaki, Inoue Yasushi e Kawabata, ma non le opere che ha scritto in giapponese, tra cui ricordo, oltre al libro su Trieste, un testo su Milano e uno su Venezia. Spero che vengano tradotti in italiano”.

L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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