A proposito di corsivo parlato

Nella vicenda del corsivo parlato, molto discussa in questi giorni, l’aspetto che mi piace di più è sicuramente il nome. Chi ha inventato la definizione “corsivo parlato” ha avuto una bella trovata davvero. E’ un titolo suggestivo, evocativo, uno squarcio che potrebbe aprire scenari impensabili: come certi libri o certi film che ti conquistano per il titolo e poi scopri che il contenuto non è all’altezza. La stessa cosa, alla fine, succede con il corsivo parlato, giochino di imitazione di un certo tono snob e fastidioso del dialetto milanese, con qualche sfumatura inventata e la risonanza dei social e di Tik Tok.

Le lezioni di questo fantomatico linguaggio non sono niente di particolarmente originale, qualcuno ha scomodato precedenti illustrissimi come Franca Valeri, ma possiamo pensare anche alla professoressa di tuscolano di Alessandro Fullin. L’aspetto più sfizioso è quello di parlare di dittonghi e di fonetica, anche se a farlo sono i giornalisti che scrivono di questo fenomeno e non i ragazzi che seguono la moda. Parliamoci chiaro: ai tempi della scuola tutti o quasi abbiamo inventato slang e linguaggi mutuati dalle materie che studiavamo, modi di parlare che scimmiottavano i professori e la televisione, locuzioni e parole chiave che arrivavano dalle canzoni e dal cinema, dalle ore di studio di letteratura, dalla grammatica di lingue morte e fondamentali come il greco e il latino, dai termini tecnici di mille altre discipline.

Il corsivo parlato non è volgare o offensivo, ma non è neanche geniale. Rimbalza agli onori della cronaca perché bisogna pur discutere anche di qualcosa che non sia la guerra, o la siccità, la crisi o il Covid. In un’epoca in cui i giovanissimi sono già proiettati nel Metaverso più che nella realtà, il corsivo parlato è una piccola simpatica goliardata. Vi immaginate se le invenzioni che facevamo da adolescenti avessero varcato l’area d’azione delle nostre classi? La maggior parte di quel potenziale pubblico non avrebbe capito molto delle nostre trovate e in pochi, probabilmente, si sarebbero divertiti con noi. Avremmo potuto, allora, industriarci con lezioni e tutorial. Ma noi siamo l’ultima generazione cresciuta con il mondo analogico, una generazione che si è messa, con una certa preparazione robusta, a studiare quello virtuale per capirlo e dominarlo, e questo è un valore aggiunto solo nostro che dovremmo vendere con più furbizia.

Avremmo potuto, dicevo, industriarci in lezioni e tutorial. Ma a quei tempi non c’erano i social né Tik Tok.

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